La Cattedrale di Rimini, comunemente denominata “Tempio malatestiano”, è una vecchia chiesa francescana dedicata a San Francesco, ampliata e trasformata da Sigismondo Pandolfo Malatesta nel XV secolo; fu adibita a cattedrale nel 1809, dopo la soppressione napoleonica del convento francescano e la sconsacrazione e distruzione dell’antica Santa Colomba.
Dal XIV secolo, nonostante si trattasse di una chiesa assai modesta ad unica navata, fu scelta dai Malatesti, signori della città, come luogo per la loro sepoltura, e quindi arricchita di altari, cappelle, dipinti importanti (alcuni dei quali eseguiti da Giotto).
Nell’ambito di questa tradizione familiare Sigismondo Pandolfo Malatesta decise di costruirvi una grande cappella gentilizia: vi si cominciò a lavorare nel 1447; in quello stesso anno Isotta degli Atti, amante e poi (circa 1454) sposa di Sigismondo, ottenne dal Pontefice il permesso di poter ampliare e utilizzare la cappella attigua, già esistente, ma abbandonata. I lavori murari di entrambe erano finiti nella primavera del 1449. Solo dopo questa data fu presa la decisione di trasformare radicalmente tutta la chiesa, che all’interno fu riformata da Matteo de’ Pasti seguitando lo stile delle cappelle appena finite, di un tardo gotico semplice e solenne.
L’esterno
All’architettura dell’esterno provvide invece Leon Battista Alberti, che ideò attorno al 1450 un rivestimento lapideo di nuovissima concezione e assolutamente indipendente dall’edificio come andava configurandosi nella sua parte interna. Bandita ogni desinenza gotica ed ogni cadenza decorativa, l’Alberti si rivolse infatti con piena coscienza all’architettura romana, traendo da essa alcuni elementi e più ancora cercando di ricuperarne la concezione stessa di architettura come celebrazione dell’uomo e come esaltazione della sua nobiltà intellettuale. Purtroppo l’edificio rimase incompiuto proprio nella sua parte absidale, cioè nella rotonda cupolata che doveva concluderlo e che forse avrebbe risolto, o almeno composto, la dissonanza stilistica oggi stridente fra esterno e interno.
La facciata è alquanto complessa nella sua intellettualistica composizione di elementi e di volumi schiacciati come in un grande bassorilievo prospettico. Essa si presenta formata da due ordini nettamente divisi: il primo, su un alto zoccolo, è scompartito da semicolonne che inquadrano tre archi in origine progettati tutti ugualmente profondi, ispirati ad architetture imperiali romane, in particolar modo all’arco riminese d’Augusto; l’ordine superiore è incompiuto, ma una medaglia di Matteo de’ Pasti, che fu praticamente il costruttore e il direttore dei lavori, ce ne dà un’idea precisa: la facciata doveva concludersi con un grande arco a pieno centro contenente una trifora, affiancato da alzate triangolari ornate superiormente da due volute che lo raccordavano all’ordine inferiore.
Sul lungo fregio della facciata, in stupendi caratteri epigrafici classici, è scolpita la seguente iscrizione: SIGISMVNDVS PANDVLFVS MALATESTA PANDVLFI F[ilius] V[oto] FECIT ANNO GRATIAE MCCCCL. Oltre che celebrare Sigismondo come “mecenate”, l’iscrizione denuncia il carattere votivo dell’edificio, sottolineato anche da una lunga epigrafe greca sui fianchi dei pilastri angolari, in cui Sigismondo dichiara di dedicare il Tempio a Dio Immortale ed alla Città per essere scampato ai pericoli della guerra italica.
I fianchi, straordinariamente solenni nella loro semplicità, sono formati da una serie di pilastri e di archi sotto cui avrebbero dovuto essere collocati i sarcofagi delle personalità più illustri della corte (solo nel fianco destro questo progetto fu parzialmente realizzato). Tra i pilastri marmorei e la parete è ben visibile una certa intercapedine ed una certa indifferenza di corrispondenze nelle aperture; indifferenza probabilmente lamentata da Matteo de’ Pasti, a cui l’Alberti scriveva nel 1454: “Quanto al fatto del pilastro nel mio modello, ramentati ch’io ti dissi, questa faccia chonvien che sia opera da per se, perché queste larghezze et altezze mi perturbano… vuolsi aiutare quel ch’è fatto, e non guastare quello che s’abbia a fare. Le misure et proportioni de’ pilastri tu vedi onde elle nascono: ciò che tu muti si discorda tutta quella musica…“. Sono frasi che confermano la chiarezza di visione dei problemi architettonici dell’Alberti e la sua concezione dell’architettura come armonia, così ben espressa nelDe Re Ædificatoria. Altri passi della stessa lettera contengono, come il trattato, dichiarazioni esplicite della sua fede nella ragione e nell’esemplarità dell’architettura antica.
L’interno
Mentre l’esterno del Tempio è essenziale, solido, aperto a un confronto leale e critico con l’antico in una ricerca d’armonia che rispecchia pienamente il gusto umanistico, caratterizzata cioè da valori di razionalità, di equilibrio, di bellezza astratta; l’interno è caratterizzato da un goticismo decorativo e sontuoso, che possiamo considerare sostanzialmente aderente al gusto tradizionale della corte per l’esibizione del fasto e della ricchezza. La struttura architettonica è stata apparata da Matteo de’ Pasti come per una festa effimera: solo che il policromo apparato è come ‘pietrificato’, reso durevole da un magico processo di fossilizzazione.
L’interno e l’esterno dell’edificio quindi costituiscono due parti ben distinte e sono frutto di mentalità e concezioni in profondo contrasto. L’unico punto in comune sembra costituito da una dichiarata volontà celebrativa: ma all’esterno si tratta di aulica, solenne, universale celebrazione dell’uomo, della ragione e della storia, che si rivela nell’armonia e nella grandiosità delle proporzioni e delle masse plastiche; mentre all’interno si tratta di un’enfatica e intellettualistica esaltazione del signore e della sua corte, della sua potenza e della sua ricchezza, che si traduce in un insieme decorativo raffinato e dispersivo, che raccomanda i suoi significati a iscrizioni, sigle e simboli araldici.
Certamente l’interno del Tempio ha qualcosa di profano e svagato, tanto nell’insieme che nei particolari decorativi e figurati, accentuato anche dall’evidente stato di incompiutezza. Questa sensazione ed un’errata e superficiale lettura dei cicli scultorei hanno fatto affermare a Pio II che l’edificio è pieno di “opere gentilesche” tanto da sembrare un tempio di “infedeli adoratori di demoni”; a questa interpretazione eretica si accompagna quella erotica di molti scrittori moderni, che ne hanno parlato come di un “Tempio d’amore” costruito esclusivamente per celebrare la passione di Sigismondo per Isotta. I due amanti occhieggerebbero da ogni parte della costruzione indissolubilmente legati in un nodo d’amore rappresentato dalle iniziali intrecciate del loro nome (S e I, che in realtà costituiscono la prima sillaba del nome di Sigismondo).
Il Tempio Malatestiano è la manifestazione più alta e tipica della cultura, oltre che del gusto, della corte di Sigismondo; una cultura di tipo neoplatonico, intellettualistica e raffinata, volutamente e costantemente lontana dalla realtà. I piani della decorazione, tutta affidata alla scultura (come voleva Leon Battista Alberti) e tutta condotta dal fiorentino Agostino di Duccio e da maestranze da lui dirette, sono opera degli umanisti di corte e sottintendono una grande quantità di citazioni letterarie e filosofiche classiche. Roberto Valturio che, insieme al poeta Basinio da Parma, ebbe sicuramente una parte di rilievo nella definizione dei vari temi, dichiara esplicitamente che il piano iconografico del Tempio è ispirato alla filosofia, anzi “ai più riposti segreti della filosofia“, e che solo i più esperti potevano penetrarne il significato. Anche oggi non è affatto agevole comprendere il significato complessivo della decorazione scultorea, sulla quale da anni gli studiosi discutono proponendo le interpretazioni più diverse: la rappresentazione della storia della religiosità umana, alcuni misteri della religione cristiana, la glorificazione dello stesso Sigismondo, identificato con il Sole – Apollo. Forse una lettura unitaria non è possibile: tutto sembra concepito per riporti successivi, simmetrici tanto dal punto di vista concettuale che formale. Comunque va esclusa decisamente una qualche intenzione dissacratoria dei “misteri” cristiani in favore di un idealistico paganesimo (secondo un programma che avrebbe suscitato l’immediata reazione e opposizione degli stessi Francescani, proprietari della chiesa), mentre è certa una volontà di autocelebrazione di Sigismondo, personale e della “dinastia” malatestiana, tuttavia secondo schemi comuni alla mentalità del tempo.
L’Alberti e Rimini
La data d’inizio dell’attività riminese dell’Alberti non è conosciuta. Probabilmente solo nel 1450-1451 fu incaricato dei lavori di trasformazione esterna e di ampliamento della chiesa francescana, in cui erano già impegnate maestranze locali sotto la guida di Matteo de’ Pasti, per l’architettura, e di Agostino di Duccio, per la scultura. Lionello d’Este, che con la sua corte costituiva per il signore riminese una sorta di riferimento costante dal punto di vista culturale, può avere suggerito e caldeggiato l’intervento dell’architetto-umanista. Nel 1454 i lavori dell’esterno del Tempio erano giunti al completamento dello zoccolo, e sul cantiere, nonostante fossero presenti disegni e modelli, si avanzavano perplessità e si chiedevano chiarimenti. Infatti la logica formale dell’Alberti risultava quasi incomprensibile agli operatori locali, contrastando troppo con la tradizione tardogotica a cui erano abituati.
Non risulta che l’Alberti abbia mai visitato il cantiere in cui si stava realizzando, con difficoltà ma, sembra, con fedeltà, il suo progetto, che era forse il suo primo progetto impegnativo (c’è molta incertezza, infatti, sui lavori romani e sulla cronologia degli edifici fiorentini, e molte difficoltà attributive su quelli ferraresi). Un progetto che è pienamente consonante con le teorie esposte nel De Re Ædificatoria, che egli andava completando proprio negli stessi anni e che si dimostra fonte indispensabile per comprendere l’elaborazione in chiave moderna e razionale delle forme anticheggianti del Tempio. L’edificio riminese sembra appunto la verifica, la sperimentazione pratica delle teorie appena formulate, o ancora in via di formulazione nel trattato: sia per quanto riguarda la concezione generale dell’edificio e del suo aspetto esterno (con l’invenzione “totale” di un’architettura all’antica), sia per quanto riguarda l’assetto decorativo interno, che certo non è albertiano, ma rivela influenze albertiane: per esempio nella preferenza accordata ai rivestimenti marmorei e nell’esclusione di cicli di affreschi, inizialmente previsti, e dei quali era già stato probabilmente incaricato Piero della Francesca.
Se l’assenza dell’architetto dal cantiere durante lo svolgimento dei lavori sembra dimostrata dalla mancanza di documenti e di notizie e dall’incertezza degli operatori, una sua visita di Rimini al momento del conferimento dell’incarico dovette sicuramente esserci. Infatti la relazione fra l’Arco d’Augusto riminese e la facciata del Tempio non può essere né casuale, né derivata da una conoscenza mediata. L’Alberti deve avere studiato direttamente l’antico monumento romano per poter proporre un’elaborazione tanto personale e sottile delle sue forme e del suo significato celebrativo, trionfale. Ma anche altri stimoli sono derivati all’Alberti dalla conoscenza di Rimini; per esempio la descrizione della rocca del signore e le raccomandazioni sul suo modo di organizzarla, presenti nel De Re Ædificatoria, rispecchiano fedelmente la situazione urbanistica e strutturale di “Castel Sismondo”, la fortezza eretta a Rimini da Sigismondo fra il 1437 e il 1446 con la consulenza di Filippo Brunelleschi. I rapporti fra l’Alberti e Sigismondo dovettero essere cordiali e forse frequenti; non si spiega altrimenti che con un suggerimento albertiano un decreto di Sigismondo datato 1457 con cui a Rimini si vieta la costruzione di sporgenze, balconi, logge e portici: infatti esso ricalca un passo significativo del trattato dell’Alberti riguardante la “città del tiranno”. Del cantiere malatestiano abbiamo poche notizie, che in gran parte risalgono al 1454, quando Sigismondo si trovava lontano da Rimini con le sue truppe e sul cantiere non si sapeva bene come procedere, dato che l’esecuzione dei lavori richiedeva alcune varianti: risultava infatti impossibile realizzare con la necessaria profondità i due archi laterali della facciata, che avrebbero dovuto, come quelli dei fianchi, contenere sarcofagi; inoltre bisognava stabilire l’esatta forma di copertura dell’edificio per poter ordinare il legname necessario. Matteo de’ Pasti e Matteo Nuti, con tutta una schiera di sovrintendenti e carpentieri e capomastri, e anche letterati, si affaccendavano – proponendo varianti e soluzioni – attorno al progetto, costituito da disegni d’insieme e di dettaglio, e soprattutto da un grande modello ligneo. Su questo si appuntava l’attenzione degli operatori, e su questo il vecchio carpentiere Alvise “‘costruiva” le sue proposte per la copertura: che non doveva gravare sui muri vecchi, che doveva coprire navata e cappelle, che doveva rispettare in tutto lo stile dell’Alberti. Alvise aveva staccato la facciata del modello ligneo per mostrare anche nei particolari il funzionamento della struttura da lui ideata e per dimostrarne la corrispondenza perfetta con “l’ordine de mesere Batista“, come scriveva Giovanni di Alvise (suo figlio) a Sigismondo. La prassi di dare concretezza ad un’idea architettonica servendosi di modelli plastici era del tutto normale nel Medio Evo, e rimase del tutto normale per moltissimo tempo. Attorno a quelle costruzioni in miniatura discutevano committenti ed artisti; su di esse gli operatori proponevano varianti e formulavano preventivi; con esse si confrontava continuamente il cantiere durante la realizzazione del progetto. In realtà quei modelli erano il vero progetto, simile dal punto di vista concettuale al bozzetto che i pittori erano tenuti a mostrare ai committenti per spiegare le loro ideazioni.
Del modello fornito dall’Alberti ci rimane appena un’immagine nella famosa medaglia di Matteo de’ Pasti raffigurante il prospetto del Tempio; forse fu esaminato con interesse per l’ultima volta nel 1475, per poter confezionare una grande torta per le nozze di Roberto Malatesta: quella torta infatti aveva l’esatta forma della “degna Chiesa di S. Francesco como doveva essere fornita, tucta di zucaro fino“.
Probabilmente il modello ligneo è finito nel camino dei frati durante uno dei tanti freddi inverni del Cinquecento, quando, definitivamente tramontato l’astro malatestiano, la sua realizzazione era diventata un’utopia. Anche i disegni sono andati perduti, e con essi ogni certezza sul progetto albertiano del Tempio. In compenso non mancano le ipotesi, formulate fin dall’inizio del Seicento: mentre per la facciata, con le sue varianti originali, non ci sono molti dubbi (ma anche per essa sono state avanzate teorie stravaganti), per il completamento del corpo della chiesa si è discusso e si discute sulla presenza o l’assenza di un transetto, e della forma e dell’altezza della cupola. Sicuramente quest’ultima era prevista nel generale piano di ampliamento dell’edificio, come testimoniano una lettera dell’Alberti al Pasti (1454) e la medaglia del Pasti stesso; ma non sappiamo se per essa sono mai stati elaborati dei progetti definitivi.
Gli artisti
Nel Tempio Malatestiano, precisamente nella porzione di architrave che corre fra la prima e la seconda cappella di sinistra, appariva la firma di Matteo de’ Pasti con la qualifica di “architetto”: a lui deve essere attribuito l’ordinamento gotico dell’interno dell’edificio, sul quale poco poterono incidere i consigli “correttivi” di Leon Battista Alberti. L’artista Veronese ha svolto alla corte malatestiana di Rimini un’intensa attività di architetto – decoratore, di organizzatore e soprintendente delle varie imprese di carattere edilizio ed artistico, forse di miniatore (come miniatore era stato stipendiato fino al 1446 da Lionello d’Este), e soprattutto di medaglista, raccogliendo l’eredità del Pisanello, che per i Malatesti aveva eseguito tre medaglie verso il 1445. La sua attività riminese non sembra aver avuto inizio prima del 1449, anche se la data presente sul rovescio di gran parte delle sue medaglie rimanda al 1446: questa infatti è una data commemorativa, anzi simbolica, come simbolica è quella del 1450, tante volte ripetuta nel Tempio Malatestiano e sulle celebri medaglie che lo raffigurano.
Anche il fiorentino Agostino di Duccio, documentato a Rimini dal 1449 al 1456, è stato uno dei grandi protagonisti dell’interno del Tempio Malatestiano, e come Matteo vi aveva lasciato la sua firma. Tutte le sculture ‘di figura’ del Tempio sono di Agostino: esse permettono di seguirne per almeno otto anni l’evoluzione, da un fare impacciato e lievemente arcaizzante (si vedano i reggistemmi della navata) fino alla conquista di una libera, originale espressione (si vedano le formelle con i segni zodiacali e con le arti liberali). In tale evoluzione sono avvertibili momenti di crisi e di stanchezza, riferimenti al mondo figurativo classico, medievale e moderno, aggiornamenti sugli avvenimenti artistici fiorentini contemporanei: il risultato finale è uno stile aristocratico e purissimo, una altissima capacità di sintesi lirica che caratterizzano molti dei bassorilievi riminesi. Sia ben chiaro che, pur attribuendo ad Agostino tutte le sculture del Tempio malatestiano, non si intende affermare un’autografia generale dello scultore fiorentino; è sottintesa l’opera del cantiere, cioè di maestranze attivissime ed esperte, presenti in tutti gli stadi del lavoro, anche in quello finale, ma non autonome. Ogni tanto si leva qualche voce che tende a sottrarre ad Agostino una parte almeno delle sculture del Tempio, e generalmente quella di più alta qualità. Il “‘concorrente” principale è quasi sempre Matteo de’ Pasti, che fu certo cortigiano e artista di buona educazione e di buona cultura e soprattutto ottimo medaglista, ma che non risulta mai attivo come scultore. Ultimamente gli si è voluto attribuire il ruolo del “dilettante” colto, geniale, in grado di suggerire concretamente soluzioni formali nuove, complesse costruzioni spaziali, idee brillanti, e si è voluta scorgere la sua impronta personale nelle sculture. È più giusto ravvisare la sua presenza nel lavoro di progettazione dell’insieme decorativo, condotto per accumulo di particolari, con un gusto da miniatore, sontuoso e fastoso, brillante e invadente, particolareggiato fino all’inverosimile, raramente geniale, con riporti vistosi di gusto tipicamente veneto.
Accanto a Leon Battista Alberti, a Matteo de’ Pasti e ad Agostino di Duccio occorre ricordare Piero della Francesca, la cui presenza nel Tempio è documentata solo dall’affresco, datato 1451, raffigurante Sigismondo in preghiera davanti a San Sigismondo nella “cella delle reliquie”, un piccolo ambiente di servizio fra le due prime cappelle. Probabilmente Sigismondo aveva preso accordi con il pittore assai prima di quell’anno: e se gli aveva fatto le proposte contenute in una ben nota lettera indirizzata a Giovanni de’ Medici il 7 aprile 1449, avrebbe dovuto dipingere le due cappelle nuove del Tempio Malatestiano e diventare un artista di corte regolarmente stipendiato (“…è mia intentione volerme comporre cum lui et dargli tanto l’anno et farlo securo dove gli piacerà de havere quanto gli serra promesso… Mia intentione è volerlo tractare bene, acciò venga a vivere e morire nelle terre mie…”). Tuttavia le cappelle non furono mai affrescate: la loro decorazione è principalmente affidata alle sculture, e anzi alcune hanno tutte le pareti incrostate di marmi. Evidentemente fra il 1449 e il 1451 c’era stato un cambiamento di progetto, forse dovuto all’arrivo di Matteo de’ Pasti e di Agostino di Duccio (a capo di un piccolo gruppo di scultori settentrionali), chiamati a dare un qualche senso all’architettura tradizionalissima, e presumibilmente squallida, delle prime due cappelle; e soprattutto ai consigli autorevoli di Leon Battista Alberti, che proprio in quegli anni dovette cominciare ad affacciarsi come consulente al cantiere del Tempio (si ricordi, a proposito, quanto afferma in un passo del X libro del De Re Ædificutoria: “All’interno del tempio, piuttosto che affreschi sulle pareti, sono preferibili pitture su tavola, anzi mi piacerebbero ancor più di queste dei rilievi“). E’ possibile che un tale cambiamento di programma sia intervenuto quando il pittore era già abbastanza avanti nello studio degli affreschi, e quando già erano stati impostati lo zoccolo marmoreo e le cornici della cappella di San Sigismondo: soprattutto nel primo, infatti, pur con fraintendimenti, sembra di scorgere motivi, proporzioni e idee ‘prospettiche’ che potrebbero essere imputati al pittore.
Della permanenza riminese di Piero della Francesca sulla metà del Quattrocento e della suggestione del suo affresco sembra di poter cogliere vari indizi in alcune opere di Agostino di Duccio e di Matteo de’ Pasti. Ma alla corte malatestiana lo stile severo, i silenzi e le pause meditate del grande pittore non dovevano interessare molto; alle dame, ai paggi, ai cavalieri, ai musici, agli improvvisati rimatori che durante le frequenti assenze del signore, impegnato in lucrose condotte, davano un tono svagato e brillante alla vita che si svolgeva nelle case e nei palazzi malatestiani, si addicevano assai meglio la fantasia gotica e la sontuosità tradizionali. Insomma, la presenza riminese di Piero – chiuso nella piccola cella l’affresco, disperse negli ambienti della corte o presso i privati le altre eventuali (e comunque poche e forse piccole) opere, parzialmente disattesi i progetti e i consigli per la decorazione interna del Tempio – sembra non aver avuto grandi conseguenze per le sorti della cultura artistica malatestiana. Deve però aver avuto una grande importanza per l’approfondimento dei rapporti fra Piero e l’Alberti: rapporti che forse erano già iniziati altrove e che erano proseguiti tra Ferrara e Rimini, e che possono essere stati anche conflittuali dal punto di vista pratico, ma che indubbiamente segnarono entrambi ed aiutarono entrambi a chiarirsi le idee per quanto riguarda la concezione dell’arte in rapporto all’uomo, allo spazio e al tempo, al problema dell’accordo fra antico e moderno, fra rappresentazione e decorazione. Dopo Rimini i percorsi artistici dei due maestri sembrano più vicini, e presentano straordinari parallelismi, tanto nella teoria che nella pratica dell’arte.
Sigismondo Pandolfo Malatesta
Naturalmente il maggiore e il vero protagonista della riforma della chiesa di San Francesco è stato Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e di Fano dal 1432 al 1468. A lui, infatti, facevano capo le maestranze e gli artisti attivi nel cantiere: non solo in quanto committente e (cattivo) pagatore, ma anche come referente per ogni più piccolo dettaglio di ordine pratico e concettuale.
Sigismondo era nato a Brescia nel 1417, figlio illegittimo di Pandolfo Malatesta, signore di Bergamo e Brescia, e nipote di Carlo, signore di Rimini. Fu prode capitano e pessimo politico; non riuscì a mettere a frutto i rapporti di parentela con gli Estensi e gli Sforza, e fu in permanente conflitto con i Montefeltro. Si circondò di artisti, di poeti, di letterati che costituirono una delle corti più splendide d’Italia, dal 1446 dominata dalla figura della bella e intelligente Isotta degli Atti, che sposò solo verso il 1454 (contraddicendo la logica della ragion di stato, che avrebbe voluto un matrimonio di un qualche peso politico). L’orgoglio, l’impulsività e l’irrequietezza, anche la poca affidabilità, del signore di Rimini congiurarono ben presto contro di lui, escluso per volere di Alfonso d’Aragona dalla “pace di Lodi” (1454), scomunicato da Pio II (1460), sconfitto nel 1463 dall’esercito pontificio (comandato dal rivale di sempre Federico da Montefeltro). Dopo la sconfitta, ormai ridotto alla sola città di Rimini il suo stato, fu l’unico signore italiano a combattere la crociata contro i Turchi in Morea, a capo di un esercito veneziano, fino al 1466. Morì a Rimini il 9 ottobre 1468: aveva 51 anni. Con il declinare della sua fortuna tutto il piccolo mondo letterario ed artistico che si era costituito attorno alla corte svanì rapidamente, senza suscitare particolari interessi né vocazioni nell’ambiente locale e senza lasciare risonanze di rilievo. Dei grandi artisti che avevano lavorato nel Tempio solo uno gli era rimasto accanto: Matteo de’ Pasti, che morì a pochi mesi di distanza.
Il Tempio non fu mai completato: e la sua incompiutezza è un documento drammaticamente eloquente della fragilità della potenza economica e politica, dell’inconsistenza dei sogni di gloria del signore riminese. Anzi il Tempio stesso può essere definito un sogno, un sogno interrotto: di Sigismondo, che voleva farne un edificio stupendo dedicato “a Dio immortale e alla città” e così dare fama e gloria a sé e alla sua famiglia; dell’Alberti, che voleva farne un monumento ad esaltazione della nobiltà intellettuale dell’uomo; dell’Umanesimo, che pensava si potessero nascondere le drammatiche contraddizioni del tempo dietro ad una cortina di raffinati, armoniosi recuperi culturali. In un certo senso il Tempio Malatestiano, per le sue incoerenze formali e per il suo raffinato intellettualismo, oltre che per la sua stessa incompiutezza, “materializza” la crisi della civiltà umanistica, i suoi interni dissidi, la sua incapacità di uscire dal mondo chiuso delle corti.
Le cappelle malatestiane
– A destra:
Accanto alla porta, nella controfacciata del Tempio, è la tomba di Sigismondo Malatesta, costruita dopo la sua morte (1468) probabilmente da maestranze guidate dallo scultore toscano Francesco di Simone Ferrucci.
La prima cappella è dedicata a San Sigismondo, re di Borgogna; fu iniziata nel 1447 e compiuta il primo maggio del 1452, data in cui fu solennemente consacrata. Nelle nicchie dei pilastri sono raffigurate le Virtù teologali e cardinali (manca la Giustizia) e, nella parte alta, giovanetti con targhe malatestiane; i bellissimi angeli a basso rilievo che tengono aperti i panneggi, sulle pareti laterali, sono tra i capolavori di Agostino di Duccio, e mostrano uno stile più evoluto delle altre sculture. In origine questa cappella era stata concepita come cappella funeraria malatestiana; ma con la decisione di trasformare totalmente l’edificio si pensò di collocare i sepolcri in luogo più eminente, cioè sotto gli archi laterali della facciata; solo a lavori iniziati, nel 1454, si comprese che tale proposito non poteva essere realizzato per ragioni statiche.
Contemporaneamente alla prima venne costruita la seconda cappella,dedicata all’arcangelo Michele, che il 12 settembre 1447 Isotta aveva ottenuto di poter riedificare e dotare, e la sagrestia compresa fra esse, detta “Cella delle reliquie” (dove troviamo il celebre affresco, firmato da Piero della Francesca e datato 1451, raffigurante Sigismondo inginocchiato davanti a San Sigismondo). I pilastri sono decorati da formelle con angeli che cantano e suonano; sulla parete di sinistra è il sepolcro di Isotta degli Atti, sostenuto da elefanti con stemmi malatestiani e coronato da un cimiero pure con elefanti ed il motto biblico “Tempus loquendi, Tempus tacendi“. Le pareti erano decorate da un motivo dipinto a finta stoffa (ne rimangono solo dei frammenti). Su quella di destra è appeso un grandeCrocifisso, mutilo degli apici, dipinto da Giotto intorno al 1300. La balaustra è decorata da angioletti portastemmi, libere e grottesche rielaborazioni di erosi classici.
La terza cappella, che probabilmente avrebbe dovuto essere dedicata a San Girolamo, è detta “dei Pianeti” per la raffigurazione dei pianeti e dei segni zodiacali ad essi corrispondenti, scolpiti sui pilastri. Si tratta di una delle più complete e organiche raffigurazioni dell’intero ciclo zodiacale secondo l’iconografia medievale, e vuole esaltare l’universo intero come opera di Dio: si contrappone al ciclo con la raffigurazione delle arti liberali scolpito nella cappella opposta, che esalta le opere e le attività dell’uomo. Nella faccia centrale dei pilastri sono scolpiti i pianeti, disposti secondo la loro distanza dalla terra: a sinistra in basso la Luna (il pianeta più vicino), a destra in basso Saturno (il più lontano); ai pianeti si affiancano le rispettive ‘case’ zodiacali, notturne (sulla faccia esterna dei pilastri) e diurne (sulla faccia interna). Il Sole, in quanto vero dominatore e motore del cosmo, è raffigurato sulla chiave di volta dell’arco, all’esterno.
– A sinistra:
La prima cappella viene detta “delle Sibille e dei Profeti” per le dodici figure scolpite nei pilastri, sorretti da elefanti e conclusi da dadi con il profilo di Sigismondo entro corone d’alloro. Per quanto riguarda il programma iconografico di questa cappella è documentato l’intervento di Roberto Valturio e di Poggio Bracciolini, nel 1454, anno in cui si cominciava a montare il rivestimento marmoreo. Sulla parete di sinistra è innicchiata, in un panneggio di gusto decisamente gotico e veneto, la tomba degli antenati e dei discendenti di Sigismondo con la rappresentazione dei trionfi di Minerva e di Scipione. La cappella era consacrata ai Martiri, ma ora è dedicata alla “Madonna dell’acqua”: con questo titolo è venerata la Pietà posta sull’altare, opera di un artista tedesco detto il “Maestro di Rimini” (prima metà del XV secolo). Tutto l’ambiente è stato pesantemente rimaneggiato nel 1862-68, su disegno di Luigi Poletti. A tale rimaneggiamento si debbono il rivestimento marmoreo del fondo, la nicchia sull’altare, i colori e le dorature che il recente restauro ha esaltato. L’altare marmoreo che coerentemente completava l’intervento del Poletti si trova attualmente nel cappellone di sinistra.
Forse la seconda cappella doveva essere dedicata agli Angeli Custodi; viene detta dei “Giochi infantili” per le raffigurazioni che compaiono nei bassorilievi dei pilastri, analoghi per tecnica e soggetti a quelli della cappella di fronte (di San Michele, o di Isotta).
Anche la terza cappella prende il nome dai bassorilievi dei pilastri, raffiguranti le “Arti liberali” e le scienze del ‘trivio’ (grammatica, retorica, dialettica) e del ‘quadrivio’ (aritmetica, geografia, musica e astronomia). E’ evidente l’intenzione di creare una decorazione simmetrica a quella della cappella opposta, tanto dal punto di vista formale che concettuale. Le sculture sono tra le ultime lasciate a Rimini da Agostino di Duccio (che abbandonò il cantiere nel 1456); una tradizione erudita voleva che fossero state prelevate da Sigismondo in Grecia durante la sua campagna contro i Turchi (1464-66). Invece dalla Morea Sigismondo portò solo le ossa del celebre filosofo neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone, che fece collocare nella terza arca sul fianco esterno del Tempio, accanto a quelle degli umanisti della sua corte, Basinio da Pama e Giusto de’ Conti.
Dopo Sigismondo
Tutto il resto del Tempio non appartiene all’epoca malatestiana; la costruzione fu interrotta verso il 1460, quando il contrasto fra Sigismondo e Pio II raggiunse una delle punte massime (del Natale di quell’anno è la scomunica del signore di Rimini, che il 26 aprile 1462 a Roma venne bruciato in effigie). Nel 1461 i Francescani dovettero provvedere alla costruzione del tetto con i soli loro mezzi. I piani dell’Alberti non furono più ripresi; al campanile si cominciò a lavorare negli ultimi anni del secolo; l’abside e i cappelloni – rifatti più volte – hanno forme settecentesche: distrutti dalle bombe nel 1944, sono stati interamente ricostruiti nel 1946. Durante la guerra tutto l’edificio fu gravemente danneggiato ed il suo paramento esterno dovette essere in gran parte smontato e rimontato con una delicata operazione di anastilosi, durante la quale si verificò che il materiale lapideo utilizzato nel XV secolo era in gran parte di reimpiego e proveniva tanto da monumenti romani che medievali. Anche il grande edificio conventuale che affiancava il Tempio, con due bei chiostri ed alcuni oratori, è stato distrutto o gravemente danneggiato durante la guerra; ospitava il Museo Civico.
Dietro all’altar maggiore è collocata una grande tela dipinta da Giorgio Vasari nel 1548 su commissione del nobile riminese Carlo Marcheselli; rappresenta San Francesco che riceve le stimmate, ed ora è l’unico elemento che esplicitamente ci ricorda che l’edificio è stato una chiesa francescana.
Un totale restauro del Tempio, intrapreso nel 1995, sarà compiuto nel 1998-99: oltre che consolidare la struttura e l’apparato decorativo e scultoreo, si propone di ricuperare la ricca policromia originale, offuscata dal tempo e da superficiali interventi. Il restauro è diretto dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici con il concorso finanziario della Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini.
Fonte:
Pier Giorgio Pasini
«Il Tempio Malatestiano»